Lunedì 04 febbraio, alle ore 21.00, presso la Biblioteca civica di Cambiano, per la serata del socio Alessandro Accossato ha presentato il suo progetto “Due Anime”.
Il fotografo, che fa parte del Circolo Autofocus – Cambiano, ha condotto i presenti in un percorso fatto di dualismo, di “sottomissione e contraddizione dell’essere donna, nei tempi che furono”, raccontato attraverso il susseguirsi di immagini accompagnate da poesie e musiche.
Un’idea originale e brillante, a cui Accossato non è nuovo, in molti ricordano di un altro suo lavoro sui manicomi, davvero molto toccante.
Lasciamo che sia il fotografo a raccontarsi.
Come nasce la sua passione per la foto?
«Ho sempre avuto interesse per il mondo della fotografia anche se mi sono avvicinato ad esso solo una decina d’anni fa. È stato allora che decisi di acquistare una macchina fotografica un po’ seria e di iscrivermi ad un corso di fotografia. Su consiglio di un amico frequentai il corso di fotografia che tiene annualmente il circolo della Famija Muncaliereisa entrando in contatto diretto con un mondo nuovo di cui mi sono innamorato e che ho continuato a seguire fino ad oggi».
Le sue foto sono legate a un’altra sua passione: “Urbex”. Di cosa si tratta?
«È nato tutto da quando ho deciso di realizzare un reportage sui vecchi manicomi. All’inizio non sapevo neanche che esistesse e cosa volesse dire fare “urbex”. Poi dovendo entrare in un vecchio manicomio sono entrato in contatto con il mondo urbex, un mondo in cui non è affatto facile entrare, fatto di persone che all’inizio si dimostrano diffidenti (non conoscendoti nessuno ti passa le coordinate delle location abbandonate per timore che tu possa essere un vandalo o peggio ancora un ladro), diciamo che la fiducia me la sono dovuta guadagnare. Alla fine ho conosciuto molta gente con la quale in seguito sono andato a fare foto condividendo esperienze uniche».
Da questi due interessi nasce il progetto “Due Anime” presentato con il Circolo Autofocus – Cambiano. Può descrivere l’idea che l’ha promosso e il messaggio che vuole diffondere?
«Il progetto è innanzitutto una sfida con la “S maiuscola”. L’idea nasce dal fatto che volevo realizzare un servizio in una location abbandonata, stravolgere il concetto di spazio vuoto e riempirlo con una presenza umana. L’accostamento modella/luogo abbandonato è un contrasto che mi ha sempre affascinato e che non si vede sovente nei vari gruppi urbex. Ovviamente realizzare solo una serie di fotografie non mi bastava e allora ho pensato di creare una storia che ruotasse intorno alle fotografie. La storia parla della condizione femminile nel 1700, un’epoca di profonda rivoluzione per quanto riguarda il ruolo delle donne nella società e nella famiglia. Infatti, è proprio in questo periodo che le donne, soprattutto in Francia, acquisiscono una maggior autostima reclamando al tempo stesso gli stessi diritti degli uomini. Ho pertanto immaginato una donna aristocratica del tempo combattuta tra due personalità, da una parte l’essere quello che imponevano le regole del tempo dando vita ad un personaggio malinconico e triste, dall’altro la voglia di esser se stessa attribuendole una seconda personalità rabbiosa e ribelle. Il concetto di doppio vuole anche far riflettere lo spettatore su un altro aspetto ossia che ancora oggi, tutti, abbiamo una doppia personalità, tutti abbiamo un secondo “io” nascosto che custodiamo gelosamente in fondo alla nostra anima perché alla fine siamo un po’ tutti dei Dr Jekill e Mr Hyde».
La location scelta per “Due Anime” è una villa antica abbandonata. Si può dire dove si trova?
«Della villa posso solo dire che la prima volta che l’ho vista su Internet me ne sono innamorato perdutamente. Non è stato facile capire dove si trovasse perché in pochi ci sono stati e lo testimonia il fatto che non ho trovato segni di vandalismo al suo interno. Dopo varie ricerche ho finalmente capito dove era ma ho anche scoperto che è sorvegliata. Ecco allora che il gusto della sfida di cui parlavo prima si è fatto decisamente sentire. Ho parlato con le due modelle, Elisa Ceglia e Roberta Vigo, con cui sono amico da tempo, gli ho spiegato cosa volevo fare e i rischi a cui saremo andati incontro. L’idea è piaciuta e hanno accettato la sfida. Una volta entrati siamo rimasti folgorati dalla bellezza degli interni e estasiati dalle sorprese che ci ha regalato l’edificio. Basti pensare che abbiamo trovato una chiesa annessa con ancora tutti gli arredi intatti. Abbiamo dovuto lavorare in assoluto silenzio per evitare di esser scoperti. Il problema grosso è stata la scelta di vestire le due modelle con un unico abito, ho dovuto pertanto girare tutta la struttura prima con Elisa e poi fare il giro al contrario con Roberta cercando di ripetere le stesse pose fatte in precedenza e sperando che la luce, nel frattempo, non fosse cambiata troppo. Alla fine il servizio è stato realizzato in meno di tre ore comunicando solo con i gesti e con lo sguardo ma portando comunque a casa circa 500 scatti».
Le foto sono emozioni fatte immagini, le ha intervallate da piccole poesie. Perché questa particolarità?
«Non vorrei sembrare ripetitivo ma la scelta della poesia è dettata dalla voglia di mettersi in discussione e sfidare me stesso. Ho da subito bocciato l’idea di accoppiare le fotografie con didascalie fredde in stile documentario, volevo qualcosa che emozionasse lo spettatore. Non ho mai scritto poesie ed è stata la cosa più difficile da realizzare in questo lavoro. Spero che leggendo le mie quartine, chi assiste alla videoproiezione, riesca a provare un minimo di emozione, non a caso le slide sono state lasciate intenzionalmente mute e non lette da una voce fuori campo proprio per far sì che il singolo spettatore possa dare una sua interpretazione personale ai versi che ho scritto lasciandosi impossessare da emozioni proprie e intime».
Progetti work in progress?
«Mi piacerebbe realizzare un reportage su mestieri che stanno scomparendo legati alla nostra tradizione rurale, sto guardando con interesse e ho già cominciato a documentarmi sul mondo dei pastori, un universo molto particolare che ha da sempre esercitato un interesse particolare su di me. Idee ne avrei già, spero solo di trovare il tempo necessario per realizzare il tutto».
Da quanto collabora con Autofocus? Dove si possono vedere le sue foto?
«Sono iscritto ad Autofocus da quando è nato il circolo. Ammetto però di essere un socio alquanto atipico. Non abitando a Cambiano e avendo comunque altri impegni, frequento poco il Circolo, infatti ogni tanto il presidente Enzo Trento mi tira le orecchie e non fa male. Dovendo far coincidere i tempi con famiglia e lavoro preferisco realizzare i progetti da solo a discapito dei lavori di gruppo organizzati dal Circolo. Ho una pagina Facebook chiamata 2AAlessandroAccossatoFotografoFreelance e molte foto le pubblico sul mio profilo Instagram alessandroaccossato_photo».
Si sente parlare molto del suo lavoro sui manicomi. Di cosa si tratta e perché questa scelta?
«Il lavoro sui manicomi si chiama “Tra le rovine della follia” ed è esattamente l’opposto di “Due Anime”. Se in quest’ultimo sono le fotografie ad esser il perno principale e la storia è l’elemento che ci ruota intorno, nel progetto sui manicomi è la storia che la fa da padrone. Una storia vera e molto forte in cui il protagonista dopo aver passato 20 anni in manicomio esce dall’ospedale psichiatrico e dopo quasi trent’anni dall’uscita, si ritrova per caso a passeggiare davanti all’ingresso di quella che fu la sua prigione. Assalito dalla voglia irrefrenabile di rivedere i luoghi in cui ha vissuto decide di entrare. Così, tra lunghi corridoi, enormi stanzoni e claustrofobiche celle di contenzione, il protagonista, assalito da continui flash-back, si ritroverà catapultato indietro nel tempo. In tutta sincerità non pensavo di riscuotere tanti consensi dalla critica nelle occasioni in cui l’ho portato in giro, e non nascondo di esserci molto affezionato tanto che non mi dispiacerebbe riproporlo in altri sedi».